Val Tramontina, Valcellina, Val Colvera: siamo in Friuli Venezia Giulia, nella montagna pordenonese.
Un territorio per certi versi selvaggio, di grande interesse geologico, ambientale e naturalistico. In parte ricadente all’interno del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, a sua volta ricompreso nel territorio delle Dolomiti riconosciute dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Queste vallate custodiscono un piccolo tesoro della gastronomia dei tempi andati: la Pitina, un salume per il quale un gruppo di produttori ha ottenuto nel 2018, al termine di un iter durato parecchi anni il riconoscimento della IGP (Indicazione Geografica Protetta). Dal 2002, la Pitina era già stata inserita tra i Presidi di Slow Food.
La Pitina è un prodotto unico, per il quale non esistono termini di paragone.
Per spiegarlo, bisogna ricorrere all’esempio della classica “polpetta”, anche se di dimensioni un po’ più grandi. La Pitina è fatta di carne magra di selvaggina (un tempo; oggi, più spesso di pecora o montone) tritata e impastata con una concia di sale, pepe, finocchio selvatico o altre erbe, pressata a forma appunto di polpetta, passata nella farina di mais (quella da polenta) e quindi fatta affumicare; un tempo nel camino di casa (il fogher o fogolar), oggi in appositi affumicatoi dove rimangono 3-4 giorni.
Nei secoli passati, le “pitine” costituivano una preziosa riserva di carne, un modo per far durare anche per mesi, la fortuna di un colpo di fucile ben assestato (spesso la materia prima proveniva dalla caccia di frodo) o la disgrazia di una bestia – capra o pecora – che bisognava macellare dopo che si era ferita cadendo da un dirupo.
Oggi la Pitina è una squisitezza ricercata dai buongustai: consumata cruda, affettata sottile, o cotta nel tradizionale piatto che la vede accompagnata dalla immancabile polenta.